Riconoscere le tenebre che insidiano la tua vita.


Io sono una teologa e 
quindi per formazione professionale, quando mi è chiesto di riflettere su un versetto, che nasce da una profezia, normalmente non mi fermo alla frase ma “allargo” la riflessione al contesto del versetto.
Se leggo un passo di Geremia, ad esempio, è importante per me sapere che quella parola è dentro un determinato contesto e questo la illumina di più.
così ho fatto anche con il titolo del Convegno che è un titolo che attiene, come ha detto Francesco al termine dell’Eucarestia, alla letteratura
giovannea. Allora io credo che sia importante che ci aiutiamo, per pochi minuti, ad entrare in quello che è lo specifico della letteratura giovannea.
Per letteratura giovannea intendo il Vangelo di Giovanni e lettere di Giovanni.
L’Apocalisse è di difficile attribuzione, ma mettiamoci anche l’Apocalisse che certamente è di scuola giovannea.
Giovanni è l’evangelista che viene raffigurato come una aquila; Perché come un’aquila? Perché ha lo sguardo penetrante, che giunge fino alla realtà più
nascosta, più profonda, per questo, il vangelo di Giovanni è quello più teologico rispetto ai sinottici, potremmo dire. Ed ha, come gli altri, bisogno di
una chiave di accesso per accedervi in maniera corretta.
La grande chiave di accesso a tutta la teologia giovannea è la luce: la luce e le tenebre. Cioè non solo il versetto che lo Spirito Santo ha dato al Direttivo,
ma parlare di San Giovanni significa parlare di luce e di tenebre; quindi, siamo proprio nel cuore di quello che è Giovanni.
Nella letteratura giovannea la salvezza che Gesù offre è raccontata attraverso  il vocabolario della luce. Tutto ruota attorno al binomio luce, per
quanto riguarda la salvezza, e tenebre laddove questa salvezza non è accolta.
In Giovanni dire luce è sinonimo che dire vita. Io avevo una parola che non ho proclamato per non appesantire la preghiera, che riguardava proprio un
atto di risuscitamento che Paolo fa nei confronti di un giovane, quando dice proprio: “questo giovane è vivo perché Dio vive”. Ecco vedete, anche nel
linguaggio ordinario, dire vita è dire luce, per esempio noi diciamo: è venuto alla luce, per dire che qualcuno è nato.
Allora pensate al prologo di Giovanni: “in principio era il Verbo è il Verbo era presso  Dio ed era luce” (Cf Gv 1,1-4). Luce e vita. L’opposizione alla
salvezza offerta, regalata, è sempre raccontata con il vocabolario delle tenebre. Voi vi ricorderete che quando Giuda nel racconto giovanneo si
separa da Gesù e dai Dodici durante l’ultima cena ed esce per il tradimento, l’Evangelista annota che “era notte” (Gv 13,30). Non è tanto una
annotazione temporale per dirci che era di notte, che accadde il fatto, quanto piuttosto la segnalazione dello stato del cuore di Giuda: era tenebroso, era
notte! Così anche Nicodemo va da Gesù di notte (Gv 3,2): nelle tenebre del proprio cuore. Mentre per Nicodemo notte si intende tutto il tormento che può
esserci nel cuore di una persona, in Giuda dire che era notte vuol dire essere proprio nel regno delle tenebre. É il rifiuto della salvezza. Poi fin dove sia
arrivato il rifiuto di Giuda, lo sa solamente Dio.
Buio, tenebre, menzogna, morte, cecità. Ancora: fa parte delle catechesi battesimali la bellissima pagina del vangelo di Giovanni della guarigione del
cieco nato (Gv 9,1-41). La conversione è raccontata come una liberazione dalla cecità, come un passaggio dalle tenebre che sono il segno del peccato,
alla luce che è il segno della presenza di Dio.
Nel Vangelo di Giovanni la luce indica la persona di Gesù. É un vocabolario cristologico potremmo dire. Al cap. 8 di Giovanni Gesù stesso si proclama
“luce del mondo” (Gv 8,12). Il Figlio di Dio incarnato, il Logos venuto nel mondo (Cf Gv 1,9) è la luce. Se nel Vangelo giovanneo, quindi, la luce ha
significato cristologico, nella prima lettera, invece, ha un significato teologico.
1Gv 1,5: “Dio che è luce e in lui non c’è tenebra alcuna”, è il Padre che è luce.
Nel Vangelo la risposta dell’uomo a Dio che viene nel mondo è la fede, cioè rispondere alla luce significa avere fede; mentre nella prima lettera di
Giovanni la risposta a Dio, che si rivela come luce, è una risposta di amore, di carità; chi ama suo fratello rimane nella luce (Cf 1Gv 2,9-11). Troviamo
invece nel Vangelo Gesù che afferma “chi rimane in me” (Gv 15,4). Il rifiuto è, nel Vangelo di Giovanni, la tenebra, come già nel prologo: “la luce veniva
nel mondo ma le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,5). Questa è la traduzione più giusta, non tanto “non l’hanno accolta”. Invece nella Prima
Lettera di Giovanni l’accento è sulla morte: rifiutare la luce significa morire.
“Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli; chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14).
Comunque in entrambi i testi, sia nel Vangelo che nella Prima di Giovanni, la luce è connessa con l’idea di giudizio e non solo il giudizio ultimo ma quel
giudizio che si compie ogni giorno, che si compie nel tempo, che in Giovanni è un continuo passaggio dalle tenebre alla luce.
Qualcuno l’ha detto, non ricordo se durante la preghiera o stamattina alla messa o addirittura a pranzo, che il nostro è un passaggio quotidiano e
continuo dalle tenebre alla luce, perché mai in noi c’è la luce totale. Quindi di tutto questo dobbiamo darci pace e questa è anche la nostra grandezza,
ed è anche ciò che ci consente di restare uniti a Dio, paradossalmente.
L’ unione con Dio si compie in questo passaggio del quale continuamente abbiamo bisogno, perché nessuno si senta arrivato, tanto che esaminando
gli atteggiamenti che ci rivelano che le tenebre hanno un posto predominante in noi oggi, vedremo proprio che il primo è l’autosufficienza.
Convertirsi è questo passaggio continuo dalle tenebre alla luce, c’è anche purtroppo, in noi la possibilità, frutto della nostra libertà, di passare dalla luce
alle tenebre ogni volta che scegliamo il male, cioè ogni volta che la nostra libertà si volge in direzione opposta alla luce, in direzione opposta alla vita.
Allora ecco che la “quota” di tenebre dentro di me cresce, perché io divento quello che scelgo di fare.
Esaminiamo ora alcuni atteggiamenti, i peccati che sono le porte aperte alle tenebre, che sono segno, anche, che le tenebre sono già in noi.
Di questi atteggiamenti ne ho scelti tre, perché per la letteratura giovannea mi sembra che siano i più pregnanti. Sono quegli atteggiamenti che con
un’autodiagnosi, che ciascuno può fare, ci fanno riconoscere oggi dove ci troviamo, anche se in fondo solo Dio sa dove ci troviamo, ma più importante
è il riconoscere di aver bisogno di accogliere la luce.
Tre atteggiamenti: l’incredulità, l’odio e la disperazione.
L’INCREDULITA’ per Giovanni è IL peccato. É rifiutare la luce che è Cristo.
Infatti nel suo vangelo, come ho già detto, la risposta alla luce, che è Cristo che è venuto nel mondo, è la fede. Per cui il peccato, quel peccato che porta
le tenebre nella nostra vita è l’incredulità. 1Gv 4,23: “Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne è da Dio; ogni spirito che non
riconosce Gesù non è da Dio”. Quindi riconoscere Gesù è credere che Gesù è Dio. Chiunque riconosce che Gesù è il figlio di Dio è nella luce. Non c’è una
connotazione morale, come potete vedere, non interessano i peccati, quanto la radice dei peccati attuali, ovvero il peccato come atteggiamento radicale di
rifiuto di Gesù. Questa pretesa di sapere più di Dio e di rifiutare colui che Dio ha inviato nel mondo come luce è scelta di rimanere nelle tenebre. E
l’incredulità apre alla superbia della autonomia. Credere, per Giovanni, è accogliere la persona di Gesù e affidarsi a lui. Quando si parla di credere non
è “io credo che”, cioè un movimento esclusivo dell’intelletto speculativo, ma un atto di affidamento, di consegna di tutta la persona. La fede è consegna
di sé ad un Altro.
Lo ripeto: la Fede non è un movimento della sola intelligenza ma tutta la persona: l’intelligenza, la volontà, le passioni, le emozioni con le quali, in
una unità dinamica, ci consegniamo a Gesù. Consegnarsi vuol dire dipendere da qualcuno. Quando Gesù viene arrestato Giovanni usa un
termine: Gesù è stato consegnato (Cf Gv 18,30;19,11). Gesù si è consegnato perché si è lasciato consegnare, si è messo totalmente nelle
mani degli uomini, ha fatto un atto di fiducia, non negli uomini, ma nel Padre che indicava quella via. Pertanto l’incredulità apre alla superbia della
autonomia, significa “non mi consegno a nessuno”, mi tengo per me e io sono legge a me stesso, non ho una relatività. Relatività vuol dire un relativo a
qualcun altro che mi misura e dal quale sono misurato, perché ognuno di noi è continuamente misurato nelle relazioni che vive e al tempo stesso misura
continuamente. E questo è fondamentale perché ci dà la misura della nostra povertà, della nostra precarietà. Abbiamo bisogno dell’altro per non
impazzire. Gesù è misurato dalla relazione con il Padre, misura di una relazione di amore in pienezza, di fiducia totale: Gesù è relativo (in relazione,
misurato) al Padre.
L’incredulità apre alla superbia come autonomia che è il peccato di Satana:
non ti servirò! …io so quello che è bene per me!
L’altro atteggiamento scaturisce proprio dall’incredulità: la paura. L’incredulità ci rende orfani. Accogliere la luce significa accogliere Colui dal quale la luce
proviene. Abbiamo recitato il Credo questa mattina: generato non creato, luce da luce. Così i Padri spiegavano, ai tempi dei grandi concili, che il Figlio
é della stessa natura, quindi uguale al Padre. Luce da luce: come il sole che giunge a noi, tutto, in un raggio, così il Padre giunge a noi nel Figlio.
Luce da luce significa accogliere il Figlio e accogliere in lui il Padre. Non accogliere il Figlio significa entrare nella orfanità. E senza un Padre siamo
nella paura.
Sentirsi orfani: questa è una è una condizione drammaticamente attuale ai giorni d’oggi. Non si diceva, anni fa, siamo figli dell’uccisione del Padre? Il
nostro tempo è quello della soppressione del Padre. Il risultato è che moriamo di paura perché non abbiamo la pacifica e rassicurante
consapevolezza di avere alle spalle una paternità che ci protegga. Così cerchiamo ovunque rassicurazioni, ci svendiamo per ogni frammento di vita
che possiamo catturare. Ecco allora che l’incredulità apre alla paura, all’ansia e alla ricerca, a volte in maniera ossessiva, della vita nelle sue tante
espressioni, comprese quelle che poi noi teologi morali chiamiamo i vizi, che attengono a tutte le realtà della vita: dalla realtà della fame, della gola, della
castità e così via…. cercare la vita… consumare la vita.
L’ODIO. La Prima Lettera di Giovanni è tutta tessuta su questa certezza: chi è nella luce ama, perché luce è sinonimo di Amore. Abbiamo fatto cenno, al
fatto che nella lettera di Giovanni, la risposta a Gesù, alla sua salvezza, è l’amore, chi non ama il fratello, non ha ricevuto la vita. “Questo è il
comandamento, che crediamo nel nome del figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri” (1Gv 3, 23): crediamo e amiamo.
Ancora: “I figli del diavolo odiano” (1Gv 3,10), chi è del diavolo odia. E l’odio, nella sua tragicità, nella sua violenza, è abbastanza facile da
riconoscere; meno facile è riconoscere tutti quei figli minori dell’odio: il risentimento, il rumore di fondo dell’amarezza.
L’amarezza è terribile, ricordate le acque amare, quelle di Mara quando Israele esce dall’ Egitto, le acque salate che non dissetano: sono quelle acque che ci abitano e che alla fine fanno di noi delle persone amare, dove c’è un accumularsi di tanti sentimenti, di tante questioni, di tante questioncelle non sanate che poi sono
diventati acqua amara che fa di noi persone amare. Quelle sono più difficili magari da riconoscere e sono i figli minori dell’odio.
“Chi dice di essere nella luce ma odia suo fratello è ancora nelle tenebre” (1Gv 2, 9).
Infine, il terzo atteggiamento è la DISPERAZIONE.
C’è un brano particolarmente bello nella letteratura giovannea che afferma che siamo figli di Dio e che questa certezza è speranza certa che ci purifica.
“Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio (il Padre: la fonte della luce) e lo siamo realmente. Per questo il mondo
non ci conosce, perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però
che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui perché lo vedremo così come Egli è. Chiunque ha questa speranza in lui purifica se
stesso come Egli è puro” (1Gv 3,1-3).
Noi siamo già figli di Dio, questa è una buona notizia! Quale grande amore essere chiamati figli di Dio! Ma lo siamo già. Ma la piena fioritura, ciò che
saremo, il compimento della nostra umanità, l’umanità piena, l’umanità così come è nel sogno di Dio, quello che noi saremo ci sarà manifestato, a tempo
debito. Ma mentre noi speriamo, questa speranza ha il potere di purificare la nostra vita. La speranza di contemplare il volto del Padre ci purifica, ci
cristifica, ci conserva nel movimento, nel cammino, nell’andare. Ecco perché allora il peccato della disperazione, cioè le tenebre come disperazione, è
particolarmente doloroso perché ci trasforma da viaggiatori (uomo in cammino), direbbe papa Francesco, a coloro che siedono sul divano. Ecco
allora quel vizio che ci ferma, ferma il cammino, ci paralizza: l’accidia.
Ecco allora che quando la speranza nel regno dei cieli non ci purifica più, non  ci lavora più dentro, siamo seduti e l’accidia è proprio quel vizio che
uccide in noi il movimento dello Spirito che invece è il grande vettore che continuamente ci conduce al regno dei cieli.
Riassumendo:
L’incredulità è superbia e paura nel bisogno di riempirsi di vita nei modi che ciascuno sceglie.
L’odio uccide la vita di Dio in noi, perché ci rende omicidi e ogni omicidio è sempre un suicidio perché il peccato ha sempre anche un valore intransitivo, cioè prima di tutto ricade sull’uomo che compie il peccato, per cui qualunque omicidio è sempre un suicidio.
E infine la disperazione che ci fa fermare.
Ricordiamoci, per esempio, quando Elia, spaventato, in fuga dalla regina Gezabele, si ferma e dice: adesso basta, Signore, per me meglio morire che
vivere, mi fermo (Cf 1Re 19,1-8). Meglio morire che vivere a volte lo diciamo, lo verbalizziamo, altre volte no, ma lo dice la nostra vita.
L’ultimo passo è quello di chiamare per nome gli spiriti che ci abitano. Forse qualcuno di voi si è cimentato nella lettura di Evagrio Politico: Gli otto spiriti
della malvagità. É una lettura stupenda, che parla della psicologia della tentazione, lettura bellissima, dove i Padri non nominano tanto gli
atteggiamenti quanto gli spiriti, cioè bisogna chiamarli per nome mi spiriti!
Qual è lo spirito che mi abita oggi?
Noi abbiamo questa esperienza della preghiera di rinuncia con le promesse battesimali. In questo cammino continuo di viaggio dalle tenebre alla luce
non siamo lasciati soli. Prima di tutto è accaduta una cosa nella nostra vita: che le tenebre sono state vinte una volta per sempre perché siamo stati
battezzati. Ecco che dobbiamo sempre radicarci e ri-radicarci nell’ oggettività dei sacramenti e meno nella soggettività del sentire. Perché i sacramenti
sono Grazia che cerca il nostro cuore, che lo prepara e che poi compie quello che promette. Nel battesimo la salvezza si è già compiuta, noi siamo
immersi nella morte e nella Risurrezione di Cristo, siamo nella luce.
Giovanni lo dice siamo figli della luce non siamo figli delle tenebre; la certezza che Cristo ha già vinto ci è stata già regalata, la vittoria di Gesù è
venuta a noi nel battesimo. È vero, Dio salva ciascuno secondo vie che sono note a lui solo ma è anche vero che essere battezzati è differente dal non
aver ricevuto il battesimo. Quando siamo stati battezzati qualcuno ha rinunciato a Satana, alle sue seduzioni, alle sue opere. Adesso è importante
che noi, come dice Giovanni, che abbiamo un germe divino che abita in noi e che abbiamo ricevuto l’unzione (Cf 1Gv 2,26-27) noi chiamiamo per nome
questi spiriti e viviamo da figli di Dio. “Voi siete figli di Dio, figlioli, che avete vinto costoro perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo”
(1Gv 4,4). Allora, se per esempio sono della tristezza, è bene che io mi radichi nell’oggettività del Sacramento che ho ricevuto e proclami che nel
nome di Gesù Cristo io rinuncio allo spirito della tristezza. Occorre chiamare per nome quello spirito che ci inabita e sottoporlo alla potenza battesimale.
Per concludere:  per riconoscere le tenebre che insidiano la nostra vita per prima cosa vi hoparlato delle tre grandi categorie che troviamo nella letteratura giovannea. Di queste tre categorie vi ho poi anche descritto un po' i figli ed i “figlioletti”.
E da qui vi ho anche detto che siamo già luce, che già il battesimo ci ha trasformati. Pertanto, questa potenza va calata con semplicità nella nostra
esperienza feriale, attingendo continuamente al battesimo. Quelle rinunce che altri hanno fatto per noi dobbiamo farle quotidianamente,
ordinariamente, mentre lavoriamo, mentre guidiamo, ecc. Ma bisogna chiamare per nome gli spiriti. Nell’ esperienza della guarigione e della
liberazione è fondamentale questo “chiamare per nome”. Perché Dio crea chiamando per nome!
Buon Cammino

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