La dipendenza ben vestita: il lavoro come ossessione


Al giorno d'oggi riscontriamo delle dipendenze che si innescano all'interno di attività lecite e socialmente ben accettate sulle quali però la persona perde comunque la capacità di controllo e di autoregolamentazione. Sono le "new addictions”, o “dipendenze comportamentali", per le quali non si assumono sostanze di nessun tipo ma che sono comunque fortemente invalidanti nella costruzione di rapporti umani e familiari.La dipendenza dal lavoro è una di queste ed è una scoperta recente, ne ha parlato per la prima volta lo psicologo americano Wayne Oates in un suo testo del 1971, "Confessions of a workaholic: the fact about work addiction", nel quale fissava un elenco di dipendenze tipiche della nostra società industrializzata, le "new addiction" appunto, che comprendono quella da smartphone, da Internet, da shopping compulsivo, da abuso di interventi di chirurgia estetica, da vigoressia (= culto del corpo) e anche da dipendenza da lavoro, definita, con un termine ormai di uso corrente, "workaholism", cioè "ubriacatura da lavoro" per la stretta analogia che ha con l'alcoldipendenza. In effetti la più importante associazione americana, la Workaholism Anonymous, fondata a New York nel 1983, per la cura e la prevenzione della sindrome da dipendenza da lavoro, utilizza il sistema terapeutico dei 12 passi già in uso presso gli Alcolisti Anonimi.
Il dibattito scientifico sulle ragioni scatenanti queste nuove dipendenze è molto vivace e le ricerche sia in Italia che all'estero ne mostrano tutta la problematicità. Soprattutto nel contesto italiano, infatti, sono a tutt'oggi reperibili pochissime pubblicazioni di carattere scientifico supportate da dati empirici, anche perché la dipendenza dal lavoro è sicuramente tra quelle più difficili da riconoscere e delineare. I confini tra comportamento d'uso e comportamento d'abuso sono sfumati, non si può facilmente stabilire da che punto in poi l'eccesso di un lavoro amato, che si fa con passione, diventa dipendenza. Inoltre, al giorno d'oggi, essere produttivi è un obbligo sociale, l'insidia più pericolosa deriva proprio dal rispetto che i grandi lavoratori si guadagnano e anche dall'ammirazione per l'arricchimento economico che spesso ne consegue. Ecco perché abbiamo utilizzato come titolo la brillante espressione di Bryan E. Robinson, "la dipendenza ben vestita", usata nel suo testo del 1998 "Chained to the desk: a guidebook for workaholism, their partners and children, and clinicians who treat them".
Ma finanche su una possibile definizione "scientifica" dell'espressione “sindrome da dipendenza da lavoro" il dibattito è ancora molto acceso perché, come già evidenziato da Mc. Millan e O'Driscoll nel 2006, ogni definizione proposta deriva da diverse metodologie di indagine (quantitativa o qualitativa) e da setting differenti. Per setting in genere si intende il campo di ricerca entro cui si svolgono osservazioni per ottenere risultati. In questo caso si tratta di setting clinici oppure non.
Queste diverse concettualizzazioni hanno ovviamente fatto identificare differenti tipologie di "workaholic", come Oates ha definito le persone con sindrome da lavoro dipendente. In linea di massima, comunque, oggi si è d'accordo nel ritenere che un problema di dipendenza dal lavoro esiste, si tratterebbe di una sindrome compulsiva, è un problema individuale e sociale molto forte e molto più diffuso di quanto si possa immaginare, anche se mancano totalmente cifre ufficiali, attendibili, di riferimento e che in ogni caso si può parlare di workaholism solo se si constata la contemporanea presenza di comportamenti tendenti all'eccesso nei confronti di un’attività lavorativa, insieme con un impulso interiore che diventa incontrollabile e che spinge l'individuo verso tali eccessi .
In genere i primi ad accorgersi della possibile esistenza di un problema sono proprio i familiari. Si racconta che lo stesso Oates si rese conto della sua dipendenza dal lavoro quando costrinse il figlio a prenotare un appuntamento nel suo studio per riuscire a trovare il tempo di parlargli...
Nel caso di una dipendenza acclarata succede infatti che la maggior parte degli impegni familiari vengano disdetti a causa del lavoro, ma soprattutto che i parenti stretti si sentano progressivamente sempre più esclusi, quasi irrilevanti nella vita del congiunto che vedono isolarsi sempre più e nello stesso tempo essere sempre più allontanato dagli altri. Infatti questa compulsione operativa rende la persona invisa perché, insieme con una apparente efficienza lavorativa, compare di solito un comportamento aggressivo e impaziente contro chi non dedica tutto il suo tempo al lavoro.
Ma che persona è il workaholic? Si è generalmente d'accordo nel considerarla persona compulsiva, come abbiamo detto, incapace cioè di comprendere la differenza tra ciò che sarebbe ragionevole ed adeguato fare e ciò che invece si è costretti a fare, impossibilitata ad esercitare una scelta. Si tende a considerarlo un professionista incapace di una gestione organizzata del tempo lavorativo, con bassa autostima e grave difficoltà a riconoscere ed accettare i propri limiti, tutti problemi negati attraverso affermazioni di attaccamento etico al lavoro. Il tutto si accompagna ad un senso di colpa vissuto ma non ammesso. Questo vuol dire che il "dipendente" si rende ben conto di non avere più tempo per la famiglia o altro, cerca delle scusanti per giustificare il suo comportamento e le nuove ulteriori proposte di lavoro, accolte con entusiasmo e dedizione, a questo punto sono l'unico modo per uscire dall'autocommiserazione e per avere la commiserazione degli altri a causa dell'eccessivo lavoro, perché tutto ciò elimina i sensi di colpa e rafforza l'autostima. È dunque soggetto inadeguato e insicuro; ipercritico con i colleghi, è un presenzialista che non sa delegare nulla e che tende ad avere tutto sotto il suo controllo. Concentrato sul successo professionale, teso ad essere sempre produttivo, superefficiente, instancabile, relega in secondo piano, finendo col bypassare completamente, il mondo dell'ascolto interiore, sino ad arrivare ad una vera e propria anaffettività, che si accompagna quasi sempre con l'alessitimia, o "analfabetismo emozionale".
Si definisce in questo modo l'incapacità di esprimere a parole le proprie emozioni, ma prima ancora l'incapacità di riconoscerle.
Secondo una delle varie chiavi di lettura di questo comportamento d'abuso a cui accennavamo prima, il workaholic, come del resto chiunque sviluppi una dipendenza, sembra essere una persona che, senza parole per le proprie emozioni, cerca di emozionarsi con comportamenti a rischio e di abuso per sgretolare quelle corazze che nel tempo si è via via costruito per difendersi dalle conseguenze della sofferenza primordiale di non essersi sentito, a suo tempo, adeguatamente "riconosciuto e accettato" dai genitori o da figure parentali sostitutive.
Il workaholic è persona ferita.
Qualche anno fa, un giovane consacrato piemontese venne in missione in Puglia per una serie di incontri organizzati in luoghi "laici" dove portava la sua testimonianza di giovane traviato che aveva cambiato totalmente la sua vita dopo avere incontrato Gesù. Tra le altre cose affermava che la sua conversione era dovuta sicuramente ad una particolare preghiera di sua madre: "Signore, non ti posso chiedere di preservare mio figlio dal dolore, ma non permettere che il dolore lo ferisca". È stato allora che ho cominciato a capire come le ferite della vita possano essere spiritualmente pericolose, in quanto possono diventare portoni spalancati alle incursioni dei nostri nemici spirituali.
Padre Athos Turchi, in "Toscanaoggi.it " del 21-01-2015, sostiene che l'uomo è un insieme di corpo e anima e quando l'anima si lascia trasfigurare dalla grazia divina presenta una trascendenza che ristruttura l'intero essere umano. Questa trascendenza, questo "luogo di Dio”, quello che Paolo definisce “spirito” in ciascuno di noi, evidenzia proprio l'azione di Dio-Cristo sull'uomo, ed è un qualcosa che va oltre il corpo e l'anima, è quella grazia che si aggiunge all'uomo nella sua interezza e lo rende figlio di Dio. Il problema è che la vita spirituale è strettamente collegata alla salute psicofisica, anche se non in modo assolutamente necessario (non ci sono "regole" perché ogni persona è unica e irripetibile), questo significa che un problema psicologico può innescare problemi spirituali e impedire l'azione della grazia, così come un problema spirituale può favorire l'insorgere di problemi psicologici perché, come sostiene Padre Raniero Cantalamessa, "tra grazia e libertà ci deve essere circolarità e compenetrazione".
In realtà la vita cristiana autentica si basa su una sana identità personale che è frutto di questa grazia: significa sapere chi siamo, riconoscersi limitati e, con fede, sapersi amati e desiderati da Dio.
Questo convincimento è la più grande fonte di autostima, l'unica che permette di uscire da sé, di riconoscere il proprio valore, di amarsi per amare gli altri (Wenceslao Vial, sacerdote e medico, in una intervista rilasciata a Rocio Lancho Garcia, in “Zenit” del 05-08-2015).
Ma il nostro fratello o la nostra sorella workaholic, persona psicologicamente ferita, è anche persona spiritualmente compromessa.
Le ragioni sono molto semplici da comprendere. "La Chiesa è convinta che il lavoro costituisce una dimensione fondamentale dell'esistenza dell'uomo sulla terra (...), attinge questa sua convinzione soprattutto alla fonte della Parola di Dio rivelata e, perciò, quella che è una convinzione dell'intelletto acquista in pari tempo il carattere di una convinzione di fede” (Giovanni Paolo II,  “Laborem exercens”, 1991, cap. II, 4).
 Le prime pagine del Libro della Genesi costituiscono la fonte di questa convinzione: "Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”" (Gen. 1,28). Anche se queste parole non si riferiscono esplicitamente al lavoro, ci fanno comunque comprendere che l'uomo diventa "immagine" di Dio anche per il mandato di "soggiogare" la terra, che significa scoprirne e imparare ad usarne opportunamente tutte le risorse con una attività consapevole e finalizzata.
"La fondamentale e primordiale intenzione di Dio nei riguardi dell'uomo (...) non è stata né ritrattata, né cancellata neppure quando l'uomo, dopo aver infranto l'originaria alleanza con Dio, udì le parole: << Col sudore del tuo volto mangerai il pane >>. Queste parole si riferiscono alla fatica a volte pesante, che da allora accompagna il lavoro umano (...). Eppure, con tutta questa fatica e forse, in un certo senso, a causa di essa, il lavoro è un bene dell'uomo." (Giovanni Paolo II, op. cit., cap. II, 9).
La Chiesa ci ha donato tantissime possibilità di riflessione sul lavoro attraverso gli scritti dei Padri della Chiesa, molti i pronunciamenti dei Santi (un nome per tutti, San Benedetto, col suo "Ora et labora"), non mancano documenti ufficiali, oltre alla già citata "Laborem exercens" ricordiamo la "Rerum novarum" di Leone XIII, del 1891, che rappresenta il primo intervento ufficiale della Chiesa in campo sociale; l’importanza di questo documento è confermata dalle numerose encicliche successive pubblicate per celebrarne i vari anniversari.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n° 2427 dice: "Il lavoro umano proviene immediatamente da persone create ad immagine di Dio e chiamate a prolungare, le une con e per le altre, l'opera della creazione sottomettendo la terra (...). Può anche essere redentivo. Sopportando la penosa fatica del lavoro in unione con Gesù, l'artigiano di Nazareth e il Crocifisso del Calvario, l'uomo, in un certo modo, coopera con il figlio di Dio nella Sua opera redentrice. Si mostra discepolo di Cristo portando la croce ogni giorno, sull'attività che è chiamato a compiere.".
 Ancora il CCC, al n° 2428: "Il lavoro può essere un mezzo di santificazione e un'animazione delle realtà terrene nello Spirito di Cristo. Nel lavoro la persona esercita e attualizza una parte delle capacità iscritte nella sua natura. Il valore primario del lavoro riguarda l'uomo stesso, che ne è l'autore e il destinatario. Il lavoro è per l'uomo, e non l'uomo per il lavoro".
Enrique Quemada, Presidente della Banca “ONEtoONE”, sposato e padre di quattro figli, in uno dei blog del quotidiano Expansiòn, racconta la sua esperienza lavorativa e rivela come si è reso conto del pericolo della spirale "vivere per lavorare". Sostiene che oggi il mondo delle imprese è pieno di "schiavi. Prima ancora di parlare di dipendenza vera e propria, secondo Quemada si è già su una china pericolosissima quando si trascorrono giornate interminabili senza lasciare spazio alla famiglia, a Dio, agli amici, quando, di quelli che definisce "i quattro fronti della vita", e cioè quello professionale, spirituale, familiare e comunitario, ci si dedica esclusivamente a quello professionale, trascurando gli altri tre. Secondo Quemada quello che davvero conta è mettere il lavoro, l'impresa, che è uno strumento di vita per un fine determinato, “in prospettiva”, il che significa prendersi cura delle persone con cui si lavora tutti i giorni, e imparare a rispettare gli spazi, il lavoro nel luogo del lavoro, e la casa per la famiglia e gli amici. Non si tratta dunque di lavorare dì meno, ma di fare tutto ciò che va fatto nel modo, nel posto e al momento giusto. Ma ciò che veramente aiuta è dedicare uno spazio a Dio durante la giornata, perché ci consente di mettere ordine nella vita e di stabilire le giuste priorità.
Quelli di Quemada sono naturalmente consigli pratici che possono servire a ciascuno di noi, ma è curioso considerare che tutto questo, in fondo, è anche quanto oggi raccomandano i guru dell'impresa e del management, quando propongono di dedicare uno spazio quotidiano alla meditazione...
Secondo la Dottrina Sociale della Chiesa, dunque, il lavoro riveste un ruolo importante per la persona, che non deve comunque rimanerne schiacciata perché Dio ha dato il potere all'uomo di occupare la terra e di sottometterla, secondo il senso che abbiamo già dato a queste parole.
Ma anche il riposo deve avere il suo spazio e anche questo in obbedienza alla Parola di Dio rivelata. Giovanni Paolo II dice: "L'uomo deve imitare Dio sia lavorando come pure riposando, dato che Dio stesso ha voluto presentargli la propria opera creatrice, sotto la forma del lavoro e del riposo(...). Perciò anche il lavoro umano non solo esige il riposo ogni “settimo giorno”, ma per di più non può consistere nel solo esercizio delle forze umane nell'azione esteriore; esso deve lasciare uno spazio interiore, nel quale l'uomo, diventando sempre più ciò che per volontà di Dio deve essere, si prepara a quel “riposo” che il Signore riserva ai suoi servi e amici." (Giovanni Paolo II, op.cit., V-25).
Alla luce di tutto questo, la persona workaholic ci appare nella sua evidenza di persona ferita psicologicamente e spiritualmente: non segue la Parola di Dio, per un malinteso senso del lavoro, qualunque sia la causa che l'ha determinato, non si concede il necessario riposo.
Tutto questo non può che impedire l'azione della grazia.
Allora tutto il male che noi constatiamo per aver colpito il mondo del lavoro possiamo considerarlo una richiesta di aiuto che ci è rivolta da Dio. Il Signore ci apre gli occhi, ci chiede di riparare tutto ciò con preghiere ed iniziative personali.
Di certo non possiamo rimanere indifferenti.
Suggeriamo per questo una bellissima preghiera di Don Giacomo Alberione, “Preghiera dell’operaio”.
“Gesù, divino operaio e amico degli operai, volgi il tuo sguardo benigno sul mondo del lavoro. Ti presentiamo i bisogni di quanti compiono un lavoro intellettuale, morale o materiale. Vedi in quali fatiche, in quali sofferenze e tra quali insidie viviamo i nostri duri giorni. Vedi le sofferenze fisiche e morali; ripeti il grido del tuo cuore: «Ho pietà di questo popolo». E confortaci, per i meriti e l’intercessione di san Giuseppe, modello degli operai e artigiani. 
Dacci la sapienza, la virtù, l’amore che ti sostenne nelle laboriose giornate. Ispira pensieri di fede, di pace, di moderazione, di risparmio, perché si cerchino sempre, insieme al pane quotidiano, i beni spirituali ed il Paradiso. Salvaci da chi, con inganno, mira a rapirci il dono della fede e la fiducia nella tua provvidenza. Liberaci dagli sfruttatori, che disconoscono i diritti e la dignità della persona umana. Ispira leggi sociali conformi al magistero ecclesiale. Regnino assieme la carità e la giustizia con la cooperazione sincera delle classi sociali. Considerino tutti il Vicario di Cristo, Maestro nella dottrina sociale, che assicura al lavoratore una graduale elevazione ed il regno dei cieli, eredità dei poveri di spirito. Amen.”

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