Mi nutro di....Quando mangiare è un problema

La mamma, o chi per lei, quando cucina per i suoi figli, mette in tavola anche un tempo della sua vita: ha programmato i pasti,  è andata a fare la spesa, ha cucinato.

Quando noi mangiamo consumiamo quindi anche il tempo e il sacrificio dell'altro che ha preparato il cibo. È una storia di abilità e di trasformazioni, di lavoro e di fatica nella quale si accolgono, trasformandoli, i doni del Creatore: è una storia sacra.

Il cardinale Ravasi,  dal 2007 Presidente del  Pontificio Consiglio  della Cultura, in un articolo pubblicato su  “Avvenire.it” del 30-01-15 evidenzia: “Nella tradizione cristiana le due prime opere di misericordia “corporale" sono proprio il “dar da mangiare agli affamati e dar da bere agli assetati“. Ci sono due scene emblematiche al riguardo nella Bibbia, la prima è quella in cui Dio si premura di procurare - come un padre di famiglia - il cibo e l'acqua al suo popolo in marcia nel deserto. L'altra scena è quella di Gesù che imbandisce pani e pesci per la folla che li sta seguendo moltiplicando quel poco cibo che era a loro disposizione“.

Le pagine dei Vangeli in realtà sono ricche di capitoli nei quali si narra di Gesù alle prese con il cibo, addirittura la sua prima manifestazione pubblica, le nozze di Cana, ha a che fare con un banchetto.

Gesù accetta spesso di sedere a mensa con pubblicani, farisei, peccatori e la condivisione del cibo diventa segno di misericordia perché, se il peccato è separazione da Dio, Gesù che mangia con i peccatori  è un Dio che annulla questa separazione. E tanto l’ annulla che ha scelto il pane e il vino, nutrimento del corpo, per diventare Egli stesso nutrimento di grazia  e presenza perenne in mezzo a noi.

Ma dicevamo che anche il digiuno va riscoperto.

Nella nota della Conferenza Episcopale Italiana “Il senso cristiano del digiuno e dell'astinenza. Decreto di promulgazione. Prot. N°662/94“ si dice: ”…Il digiuno dei cristiani trova il suo modello e il suo significato nuovo e originale in Gesù. È vero che il Maestro non impone in modo esplicito ai discepoli nessuna pratica particolare di digiuno e di astinenza, ma ricorda la necessità del digiuno per lottare contro il maligno (…). Si consolida attraverso i secoli l’usanza  secondo cui quanto i cristiani risparmiano con il digiuno, venga destinato per l'assistenza ai poveri e agli ammalati (…). In tal senso qualsiasi pratica di rinuncia trova il suo pieno valore, secondo il pensiero e l'esperienza della Chiesa, solo se compiuta in comunione viva con Cristo, e  quindi se è animata dalla preghiera ed è orientata alla crescita della libertà cristiana mediante il dono di sé  nell'esercizio concreto della carità fraterna".

 Il cibo, sia come nutrimento che come “sana” rinuncia (sana quando diventa  pratica spirituale, come abbiamo detto, o quando una dieta restrittiva diventa strumento importante in un piano di guarigione fisica), ha dunque un alto valore spirituale. Possiamo allora  cominciare a capire il perché di una così strenua lotta dei nostri nemici spirituali per inquinare, vanificare e annullare tutto il bene che può essere legato al consumo del cibo.

In nessun altro campo constatiamo infatti  tanta confusione, tante difficoltà diagnostiche, una gamma infinita di pratiche alimentari borderline, prima ancora di arrivare a parlare di patologia o di dipendenza vera e propria. Comunque tutto l'insieme di sofferenze  caratterizzate da una alterazione delle abitudini alimentari e da una eccessiva preoccupazione per il peso e le forme del corpo, va sotto il nome di “Disturbo del Comportamento Alimentare” (D.C.A.)  o ”Disturbi della Nutrizione e dell'Alimentazione”, secondo la definizione del D.S.M.-5 (Diagnostic and Statistical Manual of mentals  desorders = Manuale diagnostico  statistico dei disturbi mentali, n° 5, guida imprescindibile per gli psichiatri).

Nel campo dei disturbi legati alla nutrizione, inoltre, è molto diffusa la comorbilità, ossia la coesistenza di più patologie che hanno come effetto il disordine alimentare, con il coinvolgimento di discipline per la diagnosi e la terapia profondamente diverse tra di loro e che porta inevitabilmente ad un conflitto di linguaggi e di interpretazioni.

È comunque doveroso ribadire che  nella dipendenza acclarata  la persona  è mossa da un impulso interiore incontrollabile che la spinge a comportamenti inadeguati, sempre eccessivi e pericolosi. È assolutamente impossibilitata ad operare scelte di qualsiasi  tipo e finisce col trascurare ogni tipo di relazione interpersonale perché non riesce a trovare più né il tempo né le energie per altro che non sia la dipendenza stessa. Ma nel campo dei disturbi del comportamento alimentare ci sono anche delle “semplici" diete, che non rientrano tra le dipendenze vere e proprie ma che sono comunque particolari e molto pericolose perché non garantiscono nessun tipo di nutrizione corretta secondo quelli che sono i parametri universalmente condivisi. E quando queste diete sono anche il risultato di una scelta di vita o di una ideologia che probabilmente può indurre pesanti conseguenze spirituali, a maggior ragione non dovremmo sottovalutarne i rischi.

Invece tra le new-addiction che rientrerebbero sicuramente nei D.C.A. in questi ultimi anni ha avuto un particolare incremento la vigoressia. Si tratta di  un vero e proprio culto per la tenuta atletica del corpo,  che si realizza con una ricerca ossessiva del presunto tono muscolare attraverso lunghissimi, estenuanti   allenamenti e  con una dieta ipocalorica e iperproteica. Definita anche “bigoressia", “complesso di Adone", “anoressia contraria", secondo gli esperti del settore è un sottotipo di dismorfofobia, cioè di quell'insieme di fobie che nascono da una visione distorta e negativa che si ha del proprio aspetto esteriore, causata da una eccessiva attenzione per la propria immagine corporea. Di contro si sta diffondendo anche una nuova sindrome, la “fatorexia",  che è  una distorsione in positivo dell’immagine che abbiamo di noi stessi. Il fatoressico è una persona obesa che non sa di esserlo semplicemente perché non riesce a vedersi come tale, in quanto di sé osserva, sempre in maniera compulsiva, un solo un particolare, molto spesso del volto, perché lo ritiene gradevole.

Invece l'elemento peculiare del dismorfismo è in genere la preoccupazione eccessiva per un difetto nell'aspetto fisico, che può anche essere totalmente immaginario, tanto da mettere in atto compulsioni allo scopo di esaminare, migliorare o nascondere il presunto difetto con un controllo continuo della propria immagine su ogni superficie riflettente e una cura altrettanto esagerata del proprio aspetto. Quindi la vigoressia  rientrerebbe nella categoria dei disturbi ossessivo-compulsivi, e andrebbe associata a malattie purtroppo notissime per la loro diffusione, quali l'anoressia nervosa e la bulimia, che sono le malattie dismorfofobiche per eccellenza. In questo articolo prenderemo in considerazione alcune delle dipendenze che secondo gli esperti rientrerebbero nei D.C.A. a partire proprio dalla vigoressia perché di quest'ultima abbiamo alcuni dati scientifici di riferimento che mancano invece totalmente in altre, a cui comunque accenneremo. Tralasceremo invece le due dipendenze “maggiori“, l'anoressia e la bulimia, proprio per il fatto che sono già molto note e analizzate ma soprattutto perché sono molto più facili da riconoscere e per le quali è disponibile una vastissima letteratura. Ci limitiamo a riportare alcuni dati pubblicati dal Ministero della Sanità nel 2018: gli italiani colpiti dall'anoressia e dalla bulimia sono circa tre milioni (il 95% sono donne), il che significa che questo è un importante problema di salute pubblica, anche in considerazione del progressivo abbassamento dell'età di insorgenza, visto che sono sempre di più i bambini colpiti in età prepuberale.

La vigoressia è uno stato mentale che appartiene ai tempi moderni, infatti ne ha parlato per la prima volta nel 1993 Harrison Pope Jr., psichiatra, probabilmente il principale ricercatore al mondo degli effetti legati all'abuso di steroidi androgeni anabolizzanti. È una condizione particolarmente diffusa nella popolazione maschile e tra gli atleti, anche se starebbe prendendo sempre più piede tra le donne.

Nel testo "Vigoressia: quando il fitness diventa ossessione" del 2013 il dott. Pierluigi De Pascalis sostiene che in Italia i casi sarebbero nell'ordine di 60.000 unità e la classe d'età maggiormente colpita non sia più soltanto quella tipica della tarda adolescenza, ma sia addirittura maggiore negli individui di sesso maschile di età compresa tra i 25 e i 35 anni e che si registrano con sempre maggiore frequenza casi di vigoressia anche tra gli ultra quarantenni affascinati dall'idea di poter tornare ad esibire un fisico scultoreo.

 Ma oggi la diffusione di questa dipendenza sarebbe ben maggiore, arrivando a interessare il 4% della popolazione italiana. L'età di insorgenza continua a diminuire: uno studio del 2015 realizzato da Telefono Azzurro e Doxa Kids ha evidenziato che il 42% dei 1500 ragazzi tra gli 11 e i 19 anni, oggetto dell'intervista, ritiene fondamentale per la propria felicità un corpo più aitante.

All'origine di questa dipendenza, come per tutte le altre appartenenti al settore delle dismorfofobie, ci sono dunque cause di origine sociologica molto importanti: i mass-media diffondono un'immagine pubblica, sia per gli uomini che per le donne, che, fisiologicamente parlando, è irreale e artificiosa. Come è stato ampiamente dimostrato con numerose indagini statistiche, soprattutto negli U.S.A. (dall'Harvard Medical School, ad esempio) le persone con particolari fragilità possono essere così indotte a cercare di copiare questi modelli spesso irraggiungibili e questi tentativi virano frequentemente in quei disturbi ossessivo-compulsivi legati  al mondo della nutrizione e quindi rientranti nei D.C.A.

 Le fragilità psicologiche e comportamentali nella persona con vigoressia possono essere riconducibili anche a quasi tutte le dipendenze in generale. Un altro ruolo causale molto importante è dato, per esempio, dal basso livello di autostima: questa autosvalutazione porta tutte le persone dipendenti a tentare di raggiungere la perfezione attraverso una performance con la quale si tende a dimostrare il proprio valore. Nel caso della vigoressia, l'attività fisica rappresenta l’unica risorsa che la persona psicologicamente ferita è in grado di mettere in atto per sostenere uno stile di vita che permetta un senso di controllo e di superiorità morale. In particolare, come la dipendenza da sport, definita “exercise addiction" con la quale ha molti punti in comune, la vigoressia attutisce uno stato di malessere che diventa tuttavia sempre più profondo, perché agisce come regolatore dell’umore e di uno squilibrio interno: praticare attività fisica stimola la naturale produzione delle endorfine a livello ipofisario, facendo sperimentare al termine di ogni allenamento una sensazione di benessere e di relax, ma finisce col dominare in modo crescente l'intera vita. Per molti giovani, inoltre, la bassa autostima è causa  di una profonda insicurezza che viene acuita dal confronto con un mondo di giovani donne che ha abbandonato del tutto gli schemi comportamentali del passato, mostrandosi sempre più forti e più indipendenti dall’uomo. Da ciò deriverebbe l'idea che il proprio valore e la propria forza possano essere affermate solo attraverso lo sviluppo di un corpo perfetto che esalti il concetto di virilità spingendolo sino agli estremi.

L'abuso di integratori alimentari rappresenta un altro problema molto diffuso tra i vigoressici, di solito precede di poco il passo successivo, il ricorso al doping e agli steroidi anabolizzanti, con tutte le gravissime conseguenze che è facile immaginare. Gli effetti più dannosi ed evidenti sono però quelli che si verificano a livello psicologico: la dipendenza dall'attività fisica assume proporzioni tali che il semplice saltare un allenamento o svolgere una performance al di sotto delle proprie aspettative inducono a forti alterazioni dell'umore, con esplosioni di ira o attacchi depressivi. La necessità di dedicare buona parte della propria giornata all'esercizio, ma anche alla cura dell'alimentazione, si traduce, come dicevamo, in una reale diminuzione di tempo e di attenzione dedicata all'attività lavorativa, allo studio, ai rapporti personali.

Ma tutte le forme di dipendenza legate alla nutrizione presentano queste problematiche dovute alla reale difficoltà nel condividere pasti e occasioni sociali simili con persone che non seguono le stesse regole alimentari. Pensiamo all'ortoressia,  per esempio, quando è la ricerca del cibo sano a diventare un'ossessione.

 Dal greco Orthos (giusto) e Orexis (appetito), l'ortoressia, termine coniato da Steven Bratman nel 1997, è una patologia alimentare che si configura come un vero e proprio fanatismo verso il cibo “sano". In Italia pare ne siano affette almeno 300 mila persone, prevalentemente maschi. La pianificazione della dieta, che non tiene mai in nessun conto i gusti personali, la ricerca accurata degli alimenti, la maniacale attenzione al metodo di cottura, compresa la scelta delle stoviglie, la frequentissima decisione di coltivare da sé ortaggi per essere sicuri che siano esenti da pesticidi, sono tutte attività che sottraggono tempo a tutto. Anche per l'ortoressico la minima deviazione dalla regola provoca emozioni devastanti quali rabbia, depressione e ansia, mentre invece la fedeltà al progetto aumenta in maniera considerevole l'autostima e il senso di avere il massimo controllo sulla propria vita; l‘ortoressico, allora, è portato a sentirsi superiore a chi non è come lui e disprezza profondamente chi ritiene non mangi in maniera sana.

Ma, purtroppo, sul piano fisico il tanto ricercato benessere si può dimostrare nel tempo una pia illusione, perché, quasi sempre vittima dell'allarmismo ecologico, l'ortoressico evita del tutto determinati cibi, rischiando così di sviluppare patologie addirittura irreversibili. Non è infrequente neanche la fobia per i farmaci in quanto provenienti dall'industria chimica.

Il DDL 189, nell'Art. 1, riconosce la vigoressia e l’ortoressia come “malattie sociali".

Totalmente opposta è quella dipendenza definita “junk-food", cioè  da “cibo spazzatura".

Michel F. Jackson, microbiologo, nel 1951 definì  junk-food tutti quei prodotti alimentari ipercalorici, senza principi attivi, pieni di coloranti e sostanze chimiche, tipo pop-corn confezionati per microonde, patatine fritte industriali, bevande gassate con zucchero o con aspartame, prodotti dolciari, pizze e piatti pronti surgelati, in generale tutti i cibi serviti nei fast-food. Oggi in Italia la qualità di certi cibi è decisamente migliorata grazie a controlli più severi, comunque, secondo una ricerca Censis (=Centro Studi Investimenti Sociali) del 2017, sono 1,9 milioni i fruitori abituali di junk-food. A parlare di dipendenza vera e propria è stata Erica Schulte in uno studio per l’University of Michigan pubblicato sulla rivista scientifica “Appetite"(2017). In questo studio sono stati coinvolti 231 volontari a cui sono stati eliminati i cibi da cui si sentivano dipendenti e che hanno accusato tutti i sintomi fisici e mentali avvertiti nei primi giorni di disintossicazione da droghe: tristezza, irritabilità, forte desiderio di consumare ancora quanto era stato loro tolto. Per fortuna, come è stato verificato, il tutto si risolve nel giro di una settimana ma i risultati, avvalorati da altre ricerche mediche su questo tema, confermano che il consumo di “cibo spazzatura“ provoca dipendenza come la droga. Le mamme sono avvertite…

Un po' più  particolare, ma sempre nell'ambito opposto rispetto all'ortoressia, è quella dipendenza definita "Pica". Il termine, in latino, indica la gazza, quell'uccello che tende a far sparire ogni cosa capiti nel suo raggio d'azione. Detta anche “allotriofagia”, è un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato dall'ingestione, continuata nel tempo e in una fascia di età inappropriata, di sostanze non nutritive, tipo terra, sabbia, legno, cotone etc. Spesso in comorbilità con depressione e ansia, rientra nei D.C.A. quando riguarda persone assolutamente in grado di comprendere i rischi di un simile comportamento, ma che, tuttavia, non riescono a farne a meno.

La sindrome da “ruminazione“, invece, è un disturbo che consiste nel rigurgito ripetuto più volte durante o dopo il pasto. Negli adulti le cause sono a tutt'oggi sconosciute. Si ipotizza che possano essere indotte da abitudini o da traumi. In quelle indotte da abitudini rientrano i casi di bulimia nervosa e, dunque, il rigurgito, inizialmente autoindotto, diventa un'abitudine subconscia che continua a manifestarsi senza il controllo del soggetto.

“Drunkoressia“ (dall'inglese drunk =ubriaco e anorexia): con questo termine si intende un quadro patologico in cui il soggetto opera frequenti restrizioni a livello alimentare al fine di assumere ingenti quantità di alcolici senza aumentare il peso corporeo. È considerata una variante dell'anoressia per il rifiuto del cibo e il dimagrimento, per questo tale dipendenza è inserita tra i D.C.A. e non viene considerata invece alla pari della dipendenza da alcolici. Comunque l'assunzione di alcool significa assunzione di calorie, quindi la volontà di dimagrire non è fine a se stessa, ma è strumentale. L'alcool ingerito procura un senso di sazietà che permette di non avvertire la fame, ma nello stesso tempo il digiuno permette di godere maggiormente e più velocemente gli effetti inebrianti dell'alcool: lo sballo, appunto! I fruitori sono giovanissimi, secondo il Ministero della Salute in Italia sono almeno 300.000 e 8 su 10 sono femmine tra i 14 e i 17 anni. Purtroppo si tratta di stime, perché il fenomeno è quasi completamente sommerso.

“Vomiting” (sindrome da vomito): è un disturbo del comportamento alimentare che, pur presentando caratteristiche miste dell'anoressia e della bulimia, si configura come una patologia a sé stante alla cui base vi è una compulsione verso il “piacere" del mangiare e vomitare. I casi conosciuti riguardano il mondo femminile ma, a differenza della bulimia, in cui il vomito autoindotto è un rimedio riparatorio all'abuso di cibo, nel vomiting la paziente, che ha sicuramente iniziato questa procedura per il controllo del peso, alla fine vomita perché ha imparato ad associare al mangiare-vomitare una sensazione di piacevolezza. Il piacere è così grande da poter definire il vomiting “l'amante segreto” (Milanese 2004).

La "pregoressia" è il disturbo alimentare della donna in gravidanza, di solito già anoressica, anche se può insorgere proprio a causa della gravidanza. Il termine nasce dall'inglese "pregnancy" (=gravidanza) e “anorexia" e riguarda quelle donne che sviluppano comportamenti compulsivi per non aumentare di peso durante la gestazione. Questo perché la trasformazione del proprio corpo significa sia perderne il controllo, sia subire un duro attacco al proprio narcisismo e ciò può essere molto doloroso perché tocca la parte più profonda della propria identità. Le conseguenze di un atteggiamento del genere sul bambino sono facilmente immaginabili.

E potremmo continuare ancora ma quanto detto è già sufficiente per comprendere come il cibo possa perdere completamente la sua valenza comunitaria e spirituale e diventare un'arma potentissima nelle mani del nostro nemico. Purtroppo le cifre sono solo indicative, sono solo la punta di un enorme iceberg che sta stritolando soprattutto i nostri ragazzi, si parla infatti di circa 60 milioni di giovani malati nel mondo.

Il 2 Giugno 2019 si è celebrata la IV giornata mondiale di azione contro i D.C.A.. Una comunità internazionale si raccoglie virtualmente ogni anno per portare all’attenzione di tutti, ma soprattutto dei governi, un problema ormai epidemico. Numerose le iniziative sparse nel mondo per diffondere una informazione più ampia e più corretta sui D.C.A., ma anche per proporre ricerche cliniche e politiche di governo.

L'appuntamento italiano è stato gestito dalla SIET (Società Italiana di Educazione Terapeutica) e dalla SISDCA (Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare).

 Stefano Tavilla, membro per l'Italia del comitato direttivo della Giornata, fondatore e presidente dell'Ass. ”Mi nutro di vita" che si occupa di fare informazione e creare reti di collaborazione per i D.C.A., sostiene che il Servizio Sanitario italiano offre assistenza adeguata ma in modo disomogeneo nel nostro territorio. I livelli del servizio per i D.C.A. sarebbero cinque: medico di base - ambulatorio – day hospital - residenza e ospedale se c'è bisogno di un ricovero salva-vita. Ogni livello di assistenza è fondamentale durante un percorso di guarigione, ma, purtroppo, non tutte le regioni offrono un servizio che risponda pienamente alle varie esigenze. Sicuramente non la Puglia, ma neanche la Calabria, la Sardegna e la Sicilia. Chi si ammala in queste regioni deve mettersi in lista d'attesa per essere curato altrove, con tutti i disagi che possiamo immaginare. Il Ministero della Salute si sta comunque adoperando per trovare soluzioni. Tra queste è di recente costituzione il cosiddetto “Codice Lilla", un nuovo percorso di cura e accoglienza per i pazienti, per aprire nel pronto soccorso un canale di accesso preferenziale per una terapia corretta e mirata. È un iter specifico prima di tutto rivolto agli operatori sanitari per aiutarli a riconoscere – diagnosticare - affrontare i D.C.A..

Ma, purtroppo, siamo ancora nella fase progettuale.

Preghiamo allora lo Spirito Santo perché la scienza è Suo dono, la conoscenza è Suo dono, preghiamo perché effonda in abbondanza questi Suoi doni, tutti i Suoi doni, perché sia possibile trovare in tempi brevi soluzioni terapeutiche per aiutare questi nostri fratelli a risolvere gli effetti evidenti dei D.C.A., ma soprattutto le cause scatenanti, perché ormai è evidente che sono causati da disagi profondi e sofferenze interiori che non hanno nulla a che vedere con atteggiamenti eccentrici o alla moda come qualcuno, ancora, ostinatamente, continua a sostenere.

L'alimentazione è il primo rapporto del bambino con il mondo, perciò il nutrimento diventa fondamentale  non solo per la sua crescita ma anche perché col cibo, attraverso il soddisfacimento dei segnali di fame, impara a riconoscere gli stimoli ma anche i comportamenti per soddisfarli. Il bambino prende coscienza della sua identità corporea come distinzione dagli altri e, importantissimo, prende consapevolezza e sperimenta l'esistenza delle emozioni. Capiamo allora perché avere un problema col cibo significa soprattutto avere un problema con le proprie emozioni e con le proprie capacità relazionali.

Per tutte queste ragioni, ringraziando il Signore perché, nella sua infinita bontà e misericordia, ci permette di essere la voce di chi non ha voce, suggeriamo questa bellissima preghiera allo Spirito Santo:

“Spirito Santo, nel giorno del Battesimo sei venuto in noi e hai cacciato lo spirito maligno, difendici sempre dai suoi continui tentativi di rientrare in noi. Hai infuso in noi la vita nuova della grazia, difendici dai suoi tentativi di riportarci alla morte del peccato. Sei sempre presente in noi, liberaci dalle paure e dalle angosce, togli debolezze e abbattimenti, risana le ferite inferte in noi da Satana. Rinnovaci, rendici sani e santi. Spirito di Gesù, rinnovaci. Spirito Santo, Vento Divino, caccia via da noi le forze del male, annientale, distruggile perché possiamo stare bene e operare il bene.” (paolotescione.altervista.org).

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